3 ARTISTI E UN CONTADINO

VIN CHE DORME  dal 30/10/2010 al 01/05/2011

  Cormòns (GO)


3 ARTISTI E UN CONTADINO IL VIN CHE DORME E LA GALLINA INTELLIGENTE

La gallina… non è!... un animale intelligente, recitava una canzone che subito torna alla memoria a sentir parlare di “Tre artisti e un contadino”.
Allora (erano i bigi anni ’70, destinati ad essere riabilitati dal truce decennio successivo, maculato di edonisti reaganiani, paninari in Timberland al posto delle Clark’s e postmoderni vari) trattavasi di “Il poeta e il contadino”, folgorante trasmissione televisiva costruita sulle facce di gomma di Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, ma soprattutto radicata sui testi di gente come Enzo Jannacci, Beppe Viola, Felice Andreasi.
Già in quel contesto la qualifica di contadino era fittizia: l’ingenua ottusità del personaggio dalle braghe sopra la caviglia e con la sporta di plastica perennemente allacciata al polso si dimostrava solo apparente; nella realtà il confronto con la narcisistica supponenza dell’intellettuale rivelava proprio nell’outsider campagnolo la più significativa lucidità e concretezza di pensiero.
Venendo a noi, è evidente che anche il “contadino” di Zegla non la racconta giusta, celando sotto una cospicua dose di understatement, ovvero di consapevole sottovalutazione formale del proprio ruolo, il prestigio di cui da anni è circonfusa la sua sapiente attività di viticultore. Lo si capisce da come guarda la gente – avrebbe poi intonato il duo – che, diversamente dall’immagine tradizionale di una ruralità sana ma un po’ torpida, il nostro vignaiolo pensa eccome: non altrimenti si spiegherebbero le sue meditate strategie produttive e di valorizzazione del territorio e la propensione a contaminare i luoghi della propria attività con artistiche divagazioni.

Così è nel Piccolo Collio di Edi Keber che sono approdate personalità creative eterodosse come Maurizio Armellin. Le sue creature sono anzitutto i guardiani della cantina, sintesi apotropaica di colore fatto rilievo: due coppie di “bravi” appostati all’ingresso dell’area sacra a Dioniso, zazzeruti e ringhianti, che filtrano l’accesso all’alchemica bottega.
Da un lato, essi difendono il locale dove le bottiglie già mature attendono di prendere la propria strada verso distanti contesti domestici e amicali, nei quali spandere il proprio effluvio “oracolare”, che profuma e parla dei gusti profondi di una terra che tante ne ingloba, nello spessore umano della sua storia. Contesti in cui la bottiglia-bossolo di Collio, con la sua forma vagamente boccioniana, andrà a inserirsi con la medesima dose di irriverente eleganza presente nelle Nature morte di Maurizio: oggetti e brani di vita vegetale che – in foto di gruppo o in singolo ingrandimento – si caricano di un’accentuazione visiva che li potrebbe rendere drammatici o grotteschi, se non intervenisse a salvarli l’ampia dose di ironia che pervade il “mondo secondo Armellin”.
Il sorridente rigore di Maurizio, che in nome del paradosso inchioda alla triangolazione geometrica di una tovaglia forme e spazi instabili, subito destinati a scivolare liberi nella colata pittorica di una Natura metropolitana, sovrintende anche all’installazione nel cuore della collina, dove riposano le botti destinate all’invecchiamento. I tubi luminosi al neon, in quell’antro pulsante di bozzoli di rovere che covano il liquido amniotico della civiltà mediterranea, non ambiscono certo a ridefinire i contorni percettivi dello spazio, come le luci collocate in involucri vuoti di Dan Flavin; si offrono invece alla nostra lettura, serpentina fluorescente di alambicchi, per rendere conto visivamente del senso di quanto viene amplificato nel silenzio della cantina: il gorgoglio sommesso del Vin che dorme, e che nel ribollire del suo sonno sta nascendo.

Se Armellin rende visibile quanto avremmo acusticamente faticato a fare nostro, le opere di Ivan De Menis introducono a una dimensione più materica del divenire.
Sorprende nei suoi interventi la palpitante commistione dei materiali, dai quali – a partire dalle resine – Ivan sa trarre tutta la carica espressiva che essi implicitamente possiedono, proiettandoli ad assumere sembianze imprevedibili. Sotto le sue mani una semplice sovrapposizione di pigmenti si trasforma in colata di umori traslucidi o in dilatata, contemplativa stratigrafia; sulla quale ogni azione sottrattiva determina un’erosione corporea che travalica la categoria del graffito o del grattage, risolvendosi in effetti di insolita fisicità.
L’opera si offre alla visione frontale secondo una sorta di mappatura centuriata della propria estensione sul piano: riquadri regolari che si intuiscono appena, come ad uno stato di magma primigenio, nell’esame dello spessore laterale, che a sua volta non è mai contorno dell’immagine ma ne fa parte integrante; anzi, per certi versi è questa la sua componente decisiva, che proietta il nostro sguardo nel farsi della forma dipinta e ci dà il senso di un’illusiva coesione del rilievo alla parete. Tant’è che gli interventi di Ivan sembrano riallacciarsi, ancor più che alle pratiche dell’Informale novecentesco, alle millenarie sperimentazioni che hanno avuto il loro pittorico teatro sulle superfici murali, in un alternarsi continuo di spessori traslucidi e porosità granulose, di chimiche carbonatazioni e glassature ad encausto; e ne mantengono talora la suggestione di un diretto promanare del testo visivo dall’elemento strutturale, a far palpitare la parete come se ne venisse evidenziato un fremito sommesso fino ad allora non pienamente percepibile.
Non si tratta dello squarcio violento di cui è capace la natura, come nella roccia che in fondo alla cantina s’intrude possente nella stanza, ma di piccoli, umani sommovimenti, che alleggeriscono di pretese d’assolutezza le geometrie e lasciano trapelare qualche filo di luce sulle inquietudini, sui dubbi associati all’idea di profondità e alla prospettiva della riemersione. Uno che di profondità psicologiche se ne intendeva, come Hans Blumenberg, avrebbe affermato che la metafora visiva creata dall’artista vale a mostrare, con l’istintività del non detto, che “[…] in uno strato sotterraneo del pensiero era da sempre già stata data risposta a queste domande, una risposta che pur non ricevendo una formulazione nei sistemi ha tuttavia operato implicitamente con la sua presenza, nella tonalità, nella coloritura, nella strutturazione”1.

E nella polpa delle nostre fantasie, ben sotto la superficie, affondano anche i pastosi spessori visivi delle immagini di Maurizio Frullani.
Con le loro ombre così tanniniche – non a caso già al centro di una liaison con l’aceto di Josko Sirk – esse paiono quasi tener desta la memoria dei rossi di grado che fermentarono nella cantina di Keber prima del Collio paglierino. La sostanza dell’immagine si lega d’altronde con naturalezza al contesto in divenire di una pozione d’uva che lascia udire il sussurro del suo respiro. Perché il clima evocato da Frullani ha sì la penombra fuligginosa delle fiabe e leggende del Centro Europa, ma gli rimane abbarbicata una sospesa tensione mediterranea nel sentore di metamorfosi – apuleiana, misterica, non sublimata nella sonorità del verso come in Ovidio – che aleggia sull’odore di terra solforosa delle stoffe, che sembra di sentir crepitare, lontano e attutito, tra le fenditure di epidermidi argillose.
Siamo forse noi, in questo caso, a spiare come il Lucius dell’Asino d’oro le tenebrose mutazioni della strega, che “[…] dopo un lungo e segreto colloquio con la lucerna, è scossa per tutto il corpo da un tremito insistente”2?
Lo sguardo del fotografo esplicita in tale occasione altre suggestioni letterarie, accostando alle figure citazioni dalle liriche di František Halas e dal croato arcaico delle Ballate di Petrica Kerempuh, di Miroslav Krleža, con il loro sapore di crudo realismo, ribelle al punto di fondarsi liberamente sull’artificio linguistico; e le opere di Frullani provocano forse al gioco dei rimandi a quei testi proprio perché consapevoli di possedere i caratteri di entrambi: raffinatezza formale e calcolata grevità.
Baba Yaga ha abbandonato la casa sospesa su zampe di gallina assegnatale dalla tradizione fabulistica, ma non ha smarrito la sua torbida ambiguità. Indossa abiti frusti, che come le sue valigie e i velocipedi su cui viaggia paiono portarsi dietro la storia di un secolo intero; danza con una sorta di Woyzeck, che un attimo prima o subito dopo ci si trasforma sotto gli occhi in proboscidato spettatore alla Moebius di un concerto ad personam.
Tutto pare filtrato attraverso i tempi lunghi di un antico scavo della luce su cloruri d’argento, anche se è una Rollei bifocale che la crononauta tiene in mano, uscita dal suo scafandro di pizzi oscuri. Una stampella ne sostiene soffertamente il giovane corpo, reduce da epoche e battaglie lontane, ma a fare da baricentro è – al posto della lucerna di Pànfile – la macchina fotografica: l’effettivo strumento di magia.

Pordenone, 10 ottobre 2010
Fulvio Dell’Agnese

1 H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2009 [1960], p. 8.
2 Apuleio, Metamorphoseon libri XI, III, 21: “[…] multumque cum lucerna secreto conlocuta membra tremulo succussu quatit”.




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