De lumine

Sette opere fotografiche di Karl Evver  dal 17/11/2012 al 22/12/2012

  Milano (MI)


De lumine La cosiddetta «smaterializzazione dell’arte» – come recita il titolo di un celebre articolo di Lucy Lippard e John Chandler, pubblicato nel 1968 su Art International, nel quale si teorizza il processo di radicale astrazione della pratica artistica attuato dalle neoavanguardie concettuali – deve molto allo spiritismo. Sono gli esperimenti per vagliare razionalmente l’ultraterreno, per cogliere i flussi di energia psichica latente, vale a dire l’immateriale, e fissarne l’impronta in un’immagine – esperimenti condotti a partire dalla seconda metà dell’800 non soltanto da ciarlatani ed esaltati, ma soprattutto da intellettuali desiderosi di estendere la loro conoscenza oltre i confini del naturale – a dare inizio a quella deriva culturale allo stesso tempo scientista e mistica, dedita a individuare il versante sensuale della cerebralità e viceversa, che conduce a Kosuth e dintorni. Accaniti frequentatori di sedute spiritiche sono stati nemerosi esponenti di tutte – proprio tutte – le avanguardie, ma anche molti, insospettabili paladini del positivismo, da Cesare Lombroso ad Arthur Conan Doyle. E se la pittura astratta ha avuto le sue origini in quel club di occultisti dilettanti che è stato il Simbolismo, un capitolo a parte della storia della fotografia dovrebbe riguardare le presunte foto di fantasmi scattate da William Mumler, William Hope e dai loro copiosissimi imitatori. Ai fini artistici, poco importa che quelle immagini fossero false: il fatto rilevante è che ipotizzavano una rappresentazione dell’aura – per di più attraverso uno strumento tecnologico, cioè scientifico, qual è la fotografia – e in tal modo portavano per la prima volta alle estreme conseguenze quel desiderio di vedere l’invisibile che sarà poi la tensione portante di molta arte novecentesca. E poco importa se talvolta i risultati erano goffi, ma comunque stranianti, e spesso, proprio perché improbabili, suggestivi: come se quelle apparizioni di presunti fantasmi assomigliassero ai ritratti di un soggetto «angelizzato e privo di polarità sessuale», di un «equivoco pollastrone che segnerebbe il culmine del processo astrattivo, platonizzante del divino Leonardo». Così scriveva nel 1939, dopo aver visto la mostra di opere di Leonardo da Vinci ospitata alla Triennale di Milano, Carlo Emilio Gadda.
Cos’ha a che fare tutto ciò con le sette opere fotografiche di Karl Evver esposte alla Casa delle Associazioni? Forse né più né meno di quanto ne abbiano i loro titoli fra il dadaista e il wertmulleriano che sembrano collocarsi in una dimensione parallela, o meglio analogica, nei confronti delle immagini. Di più o meno sicuro c’è che, sul piano estetico, certe foto di fantasmi e certi esiti dello sfumato leonardiano sono i loro parenti più prossimi. Dopodiché ci sono solo sospetti. Per esempio la congettura che il clima culturale di riferimento sia proprio quello a cavallo tra ‘800 e ‘900: quella situazione permeata dalla voglia di configurare il sovrannaturale come una manifestazione amplificata della naturalità, dalla convinzione – neoplatonica e insieme positivista – che il lumen della ragione potesse rischiarare persino ta phantasmàta, e viceversa che la luce spettrale fosse un chiarore sorgivo, di cui quella diurna non è che una versione illanguidita. Una situazione lunga sul piano cronologico, estesa fino ai primi decenni del Novecento, agli anni – «ampiamente guastati», secondo un celebrato poeta – dell’entre deux guerres, nei pressi dei quali assume anzi il suo carattere epico, e specificatamente tragico. Una situazione fatta di sfumature, di compenetrazione tra figura e atmosfera, di un lirismo truccato, perché solo apparente, o forse solo troppo voglioso di rovesciarsi nel delirio della ragione.

Roberto Borghi



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